Risveglio di coscienze o di passi coscienti?

8 minuti

E’ il 29 gennaio del ‘24 e mi ritrovo a percorrere i lunghi corridoi dell’azienda che, in quella stessa giornata, diventerà il mio primo contratto di lavoro.

Il mio cuore batteva a ritmo del ticchettio prodotto dal contatto dei miei stivali col pavimento in legno, le mie mani sudavano e la mia mente altro non faceva che contare i minuti che mi separavano dal mio incontro con la mia futura capa.

>>1,2,3 minuti che cammino…ma quanto possono essere lunghi questi corridoi?

4,5,6 minuti…che imbarazzo, questi maledetti corridoi sembrano delle passerelle d’una sfilata di moda con tutti quegli uffici dalle porte di vetro dove il mio ticchettio incontra lo sguardo dei lavoratori ricurvi sui loro pc.

7,8 minuti e finalmente stringo la mano ferma ma accogliente della mia responsabile.”<<

E’ il 29 gennaio del ’24 e apro la porta delle esperienze lavorative nella caotica Milano. Abituata agli spostamenti bolognesi e con il monito d’un amico ben presente nei pensieri:”Milano non si vive ma si cavalca” la mia immaginazione mai avrebbe potuto fantasticare che la mia casa solo distasse 8 minuti dal mio ufficio.

E’ il 29 dicembre del ’24 che volge al termine e le mie orecchie si svegliano al suono inaspettato della dichiarazione d’un amore dalle calde lenzuola d’un nevoso giorno di montagna. Un anno intenso, pieno di vita e possibilità.

Un anno in cui la casualità degli avvenimenti assume i tratti di ciò che può essere significato come un progetto di vita ai suoi albori. Un anno in cui le attese, distanze, paure ed imprevisti si combinano tra di loro con ordine e precisione e dove il principio di ragion sufficiente felicemente constata, riconoscendo negli eventi cause ed effetti, di come la mia vita proceda senza intoppi.

Altrove, il tempo cessa desprimersi nell’ottica di un progetto con un suo inizio e fine.

E’ il 29 gennaio del ’24 e per Hind Rajab 8 minuti non è il tempo della vita ma dell’assurdo, non è l’attesa del tram o il tragitto casa-lavoro ma la burocratizzazione dei soccorsi della mezza luna rossa palestinese affinché il suono di una loro ambulanza non venga scambiato per un’aggressione militare.

E’ il 29 gennaio del ’24 e 8 minuti smettono di misurare il tempo di percorrenza di un lungo corridoio d’ufficio che giunge ad una nuova città, scrivania, condominio, strade ed incontri – dove leggiadramente e vittoriosamente si muove la nostra ragion sufficiente scorgendo negli slogan affissi attorno a sé la propria norma: ”nulla accade senza che ci sia una ragione sufficiente perché sia così e non altrimenti.” – irrompendo nella domanda:

E voi cosa direte? Quando le generazioni future leggeranno di Gaza con orrore e si chiederanno come il mondo occidentale, forte della sua superiorità morale, del suo ordine basato sulle regole e della sua attenzione per il diritto umanitario, abbia permesso un genocidio in diretta, cosa direte?Quando le generazioni future sapranno che ci siamo svegliati ogni mattina con i video di bambini bruciati vivi – bombardati con armi pagate anche dai cittadini statunitensi con le loro tasse e giustificate dal mondo occidentale – potrete dire di aver alzato la voce?.”

Arwa Mahdawi

La domanda non lascia via di scampo ed il lettore di internazionale viene condannato dalle crude parole di Arwa Mahdawi che, senza presupposti o giustificazioni, in una manciata di righe, lo giudicano colpevole. Arwa Mahdawi sembra dimenticarsi che uno dei capisaldi del diritto penale moderno esiga che nessuno possa essere dichiarato colpevole prima che sia stata provata la sua colpa in un giusto processo, perché sembra condannarmi per il solo fatto di essere nata e cresciuta in Italia in concomitanza, tra gli altri, con l’orrore di Gaza.

>>Ma, che cosa ho fatto io? Niente. Lavoro, faccio la raccolta differenziata, pago le tasse e, il più delle volte, sono cortese e gentile con il mio prossimo.<<

Mi si contraddice:

>>Ti dimentichi che l’Italia è il terzo fornitore mondiale di armi a Tel Aviv, soprattutto attraverso Leonardo, l’azienda di armamenti controllata dallo stato italiano. In sintesi, parte delle tasse che paghi sono dirette a finanziare un’azienda che fornisce armamenti militari che perpetuano l’attuale massacro in<<.

>>Questa volta ti contraddico io, interrompendoti. L’attuale governo non l’ho votato, pago le tasse perché credo nell’articolo 53 della nostra costituzione e nella conseguente realizzazione d’uno stato che abbia cura delle fragilità e diseguaglianze dei nostri cittadini. In sintesi, pago le tasse perché esiste una costituzione che è antecedente ed a fondamento di qualsiasi governo e sue strategie e attività del qui ed ora.

Ipotizziamo che io viva con la mia famiglia e che oggi debba andare a fare la spesa. Non è la giornata ideale, sono molto impegnata ma, credendo nell’importanza di rispettare la divisione di compiti e mansioni della nostra convivenza vado al supermercato. Quella stessa sera mia moglie cucina per un paio di amici e, dimenticandosi che uno di loro è allergico ai funghi, la cena finisce prima del previsto. Sono responsabile dell’accaduto?

Credo che ci sia una profonda differenza tra la causa remota e la causa prossima in termini di responsabilità. Aristotele per giustificare un fenomeno naturale individua quattro cause o ragioni: materiale, formale, causale e finale perché la realtà fisica è un fenomeno complesso e la sola intenzione di originare un evento non è sufficiente a spiegarlo; mentre, per il mondo dell’agire umano è richiesta una sola condizione per poter agire bene: la phronesis o saggezza pratica, in altri termini la nostra individuale scelta.

Così, penso tra me e me, mi salvo.<<

Io sono due

Le crude parole di Arwa Mahdawi violentemente ripopolano la mia mente.

La distinzione tra causa remota e prossima la trovo un sofisma intellettuale che non riesce a placare l’irrequietezza del mio animo. L’intenzionalità è un requisito irrinunciabile per attribuire qualsivoglia responsabilità ad un atto, ma nonostante – direttamente – io non abbia causato niente sento di dover rispondere alla domanda della scrittrice britannico-palestinese.

Al contempo, i miei pensieri si complicano perché, per poter rispondere, devo avere anche qualche forma di libertà. Una libertà che non sia governativa – non rivesto cariche legislative o esecutive – né giuridica – non ho commesso alcun reato.

Mi ritrovo così di fronte alla seguente aporia: secondo la legge dello stato italiano sono assolta, secondo Arwa Mahdawi colpevole. Hannah Arendt in “Responsabilità e giudizio” si trova, a mio modo di vedere, in una situazione simile: riflettendo sulla pervasività del nazismo per la società tedesca, s’interroga sulla possibile responsabilità da attribuire ai tedeschi. In una società in cui ogni forma di vita deve aderire al regime e a leggi che trasformano la moralità in illegalità e l’orrore in legalità, esiste – ancora – il singolo individuo che agisce invece di venire agito? Esiste. La sua massima espressione furono coloro che rifiutarono ogni relazione con il regime, anche a costo della loro stessa vita quando l’obbligo di partecipazione non poteva essere eluso. I non-partecipanti incarnarono la facoltà umana nostra di giudicare autonomamente quando ogni aspetto della societàgiustizia, teatro, giornalismo, istruzione, pubblicitàera intriso di ideologia nazista:

Essi si chiesero fino a che punto avrebbero potuto vivere in pace con la propria coscienza se avessero commesso certi atti e così decisero che era meglio non far nulla, non perché il mondo sarebbe cambiato per il meglio, ma perché questo era l’unico modo in cui avrebbero potuto continuare a vivere con sé stessi. Per dirla in modo crudele, ciascuno di loro rifiutò l’omicidio non perché volesse continuare a obbedire al comandamento ‘Non uccidere’ ma perché non voleva passare il resto dei suoi giorni con un assassino – se stesso.”

I non partecipanti furono coloro che pensarono. Pensarono non in relazione ad un ordine di valori e norme ricevuto dall’esterno, acriticamente, seguendo il comportamento dei più ma pensarono nel dialogo con sé stessi e la propria coscienza. Pensarono nell’intimità di sé stessi così che sostituirono dal loro vocabolario il termine obbedienza con supporto perché ne capirono l’inganno linguistico, essendo l’obbedienza una forma di supporto scelto. Capisco allora che Arwa Mahdawi è la chiave d’accesso al mio dialogo con me stessa:

– L’universalità del diritto mi appare oggi un privilegio per pochi.

– È sufficiente cambiare la rotta di un volo per sfuggire alla Corte Penale Internazionale e ai suoi mandati per crimini di guerra e contro l’umanità.

– Sono inserita come un ingranaggio all’interno di un sistema nazionale e sovranazionale ma, contemporaneamente, esisto come individuo e limpotenza avvertita non deve essere giustificazione per il ritiro alla vita privata.

– Devo agire. Non con il solo obiettivo di poter concretamente cambiare qualcosa, ma per non venir meno a me stessa, alla mia autenticità, idee e credenze: credo che io sia veramente libera soltanto quando anche l’altro è libero e da me riconosciuto come tale. Così che, finché vivin armonia con la mia voce interiore, potrò continuare a vivere con me stessa.

Ognuno di noi ha il suo appuntamento il giovedì mattina

Azar Nafisi conosce l’importanza di rimanere fedeli a se stessi quando il linguaggio del mondo cambia le proprie regole sintattiche e semantiche. Professoressa di letteratura inglese presso l’Università Allameh Tabatabai di Teheran, in un giorno d’autunno del 1995, consegna le proprie dimissioni perché la parola, la scrittura, la lettura esistono al solo fine di servire l’ideologia della repubblica islamica. La parola perde il suo slancio vitale e creativo, le conversazioni non prendono più pieghe inaspettate e “upsilamba” non si trasforma più in un uccello o in una fionda. I termini devono essere chiari ed evidenti, i dialoghi apparire come monolitici, non si scrive più per inventare ma per trascrivere una verità imposta che prevede, tra gli altri: colore del cappotto, lunghezza della veste, pesantezza del velo, forma delle scarpe e contenuto di una borsa di una donna in regola con ciò che viene dettato dalla politica.

In un giorno d’autunno del 1995 Azar Nafisi consegna le proprie dimissioni, “cosa farai adesso?” le domandano, insistentemente, gli amici, preoccupati: “ora che hai tagliato i ponti con l’università, ti chiuderai sempre più nella tua solitudine”. Nonostante i ragionevoli timori provati dai suoi affetti, la sua casa non diventa la consacrazione della sua solitudine ma l’appuntamento settimanale del giovedì mattina dove, assieme alle sue sette migliori studentesse, si discute di letteratura e si interpretano romanzi; ciascuna con la sua singolare voce. Il giovedì mattina alle ore 11 ci si prende cura dei propri sogni e volontà allo stesso modo in cui un’amica pittrice di Nafisi abbandonò il realismo per l’astrazione, la grigia e rigida realtà per dar forma ai suoi pensieri a tocchi di pennello.

Ogni giovedì mattina le sette ragazze si tolgono la veste nera ed il velo e grandi orecchini d’oro, labbra tinte di rosa e abbigliamenti colorati accompagnano le loro discussioni. Al termine d’ogni giovedì mattina le sette ragazze, meticolosamente e con estrema cura, ripiegano i loro appunti nelle rispettive cartelline così da averli già pronti per la settimana successiva. Perché farlo? Perché dover vivere attimi di una vita che, fuori da quella casa, era negata dallo sguardo attento ed intransigente dei miliziani armati? Perché in quel rituale settimanale loro esistono nella loro autenticità e identità, e l’affermazione della loro unicità è tanto più necessaria quanto più opprimente e costrittiva è la realtà esterna. La vita condotta dalle sette allieve di Nafisi è vera ribellione. Non è la ribellione di prender parte ad un gruppo o organizzazione politica ma la ribellione spinta dal desiderio di vivere una vita a misura propria. Nafisi, le sue sette ragazze e una stanza abitata di giovedì mattina ci insegnano che in ogni gesto ci può essere ribellione e contestazione, da una conversazione con un amico ad una manifestazione in piazza, purché ci sia riflessione e sentita verità non-violenta.

Ho così intitolato la mia riflessione Risveglio di coscienze o di passi coscienti?perché la distinzione è cruciale. La coscienza non deve andare a dormire, perché se e quando lo fa ciò che muove i nostri gesti sociali è semplice attenzione mediatica. Invece, la cura per il pensiero vigile ed un attento dialogo con noi stessi danno vita a mobilitazioni e proteste autentiche che non nascono da mode passeggere ma durano nel tempo, a prescindere dai risultati.

Quando manteniamo il nostro appuntamento del giovedì mattina, comprendiamo la messa in discussione del benessere e del privilegio privato da parte di chi: viene espulso dalla Columbia university, licenziato per i suoi post, dedica la sua discussione di laurea alle violazioni del diritto internazionale, continua il suo viaggio, a bordo della “Marinette”, nonostante la consapevolezza delle sorti degli altri compagni. Non è follia o esibizionismo, ma fedeltà a se stessi.

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