Ѐ possibile una morale kantiana oggi?

Si può parlare oggi di Kant e della sua morale? Certo, ma non è cosa semplice. Purtuttavia tale questione non può e non deve essere omessa dalle questioni filosofiche contemporanee.

In primis, pensiero del Kant morale si presta di più al pensiero del XXI secolo rispetto a quello artificioso e analitico della critica speculativa[1], molto più severa e chiusa entro le mura del mero intelletto. Di contro, la seconda Critica tratta di come l’individuo dovrebbe comportarsi utilizzando esclusivamente l’uso della ragione. La prima Critica invece la gnoseologia.

Si dà per scontata oggi la necessità di una morale pura, per vari motivi. Uno dei quali è sicuramente quello che vede la nostra società votata all’assenza di alcunché di puro, sotto tutti i punti di vista. Questo sicuramente è dovuto al fatto che il capitalismo e l’economia che vi sta di fondo hanno esteso le loro radici fino a diventare grossi alberi difficili da estirpare. Il perenne condizionamento delle masse e l’incontrollabile fattore economico sempre più protagonista sono alla base di quello che chiameremo pochezza morale.

Perché è necessario che avvenga un cambiamento di prospettiva, di etica e di morale? Tale cambiamento prospettato, non può che seguire i dettami della ragione per raggiungere quella moralità che oggi sembra così mancante. Quella forma di condotta che si auspicò anche Platone nella Repubblica. Deve. La legge morale risulta sempre più avulsa dai corpi formato automi del XXI secolo. Perché? Questa è la domanda cruciale che necessita quanto meno di una volontà di risposta da parte nostra.

I giovani si devono chiedere perché oggi si agisce in questo modo e non diversamente. Certo, sarebbe come chiedere ad un pesce perché nuota, forse. Ma noi non siamo pesci, né alcunché di meramente bestiale. Noi abbiamo il pensiero che deve supportarci continuamente e farci porre delle domande critiche prima su noi stessi e poi su ciò che ci circonda. Noi abbiamo la ragione, che deve essere l’Ecista colonizzatore dei nostri pensieri malsani e portarli sulla via della virtù prospettata da Aristotele nella sua Etica. Solo la ragione ci porta nel campo della medietà:

«Dal momento che abbiamo già asserito precedentemente che è il giusto mezzo che occorre scegliere, e non l’eccesso né il difetto, giacché il giusto mezzo è come la retta ragione dice, è di questo che dobbiamo trattare. Infatti, in tutte le disposizioni di carattere di cui abbiamo parlato, come pure negli altri casi, c’è una specie di bersaglio, mirando al quale chi possiede la ragione tende e rilascia la corda del suo arco, e c’è una determinata misura che definisce le medietà, che noi diciamo intermedie tra l’eccesso e il difetto, perché sono conformi alla retta ragione».[2]

La risposta è solamente dentro di loro, dentro di noi. Forse la difficoltà risiede proprio in questo, vale a dire nell’incapacità di sapersi ascoltare, di ascoltare la legge morale, come Kant si era auspicato.

Ormai sia i giovani che i meno giovani sono sempre più fagocitati dalle inclinazioni esterne, dai sentimenti e dalle passioni totalmente estranei al buon costume kantiano.

Sicuramente, non è nuova l’aporia e la contraddizione della morale illuministica del nostro filosofo, ché, se dovessimo eseguirla in toto sarebbe non più che una mera utopia. Questo si sa. Quello che non si sa è se, nonostante questo dato di fatto, tale teorizzazione della morale possa sopravvivere, almeno secondo i modi, nella nostra società. Per modi si intende la capacità di discernere il puro dall’impuro, il giusto dall’ingiusto e di eseguire, appunto, il modo della ragione pura pratica.

Lo stesso Kant nella Critica della ragion pratica si rivolge ai giovani, a mo’ di consiglio, affinché possano crescere in una condizione di giudizio rischiarita, il tutto attraverso uno studio approfondito degli antichi. Kant sapeva bene l’importanza che l’antichità poteva dare all’umanità futura. Tale è l’elemento della ragione pura pratica; che essi, messi di fronte al giudizio sulla vita, siano pronti a tale esercizio. Così Kant esprime questo suo pensiero:

«Io non so perché gli educatori della gioventù non abbiano già fatto uso da lungo tempo di questa tendenza della ragione a entrare con piacere anche nell’esame più sottile nelle questioni pratiche proposte, e perché, dopo aver posto a fondamento un catechismo semplicemente morale, non abbiano ricercato le biografie dei tempi antichi e moderni per aver in mano esempi dei doveri proposti, con i quali, specialmente pel confronto di azioni simili in circostanze differenti, eserciterebbero il giudizio dei loro allievi a discernere il valore morale maggiore o minore».[3]

Il punto focale è riuscire a formare una nuova società che si fondi sulla “purezza” morale. Educare i giovani significa imprimere in loro una forma di criticità che attinga dalla fonte della ragione sin dalla tenera età. Così continua infatti Kant:

«Ma, ciò che è il più importante, possono aver fiducia che l’esercizio frequente di conoscere la buona condotta in tutta la sua purezza e di approvarla, e al contrario di osservare con compassione e disprezzo anche la più piccola trasgressione, benché fatto allora soltanto come un giuoco della facoltà di giudicare nel quale i ragazzi possono gareggiare gli uni con gli altri, lascia tuttavia un’impressione duratura della stima per un lato e dell’avversione per l’altro, la quale, mediante la semplice abitudine di considerare sovente tali azioni come degne o di approvazione o più spesso di biasimo, costituirebbe un buon fondamento alla rettitudine nella maniera di vivere in avvenire».[4]

Resta da analizzare ora, come gli esseri umani si relazionino e si considerino tra di loro e di come per Kant dovrebbero “comportarsi” tra di loro. Questo tipo di pensiero è espresso nel secondo imperativo categorico così formulato:

«Che nell’ordine dei fini l’uomo sia un fine in se stesso, cioè non possa mai essere adoperato semplicemente come mezzo da alcuno, senza che nello stesso tempo sia anche un fine […]».[5]

Circa cento pagine prima Kant così spiegava l’autonomia dell’uomo come creatura razionale fine a se stessa:

«Vale a dire esso è il soggetto della legge morale, la quale è santa in virtù dell’autonomia della sua libertà. Appunto per questa autonomia ogni volontà, anche la volontà propria di ciascuna persona, rivolta verso la persona stessa, è condizionata dall’accordo con l’autonomia dell’essere razionale: è limitata cioè dalla condizione di non assoggettare quest’essere a nessun proposito, che non sia possibile secondo una legge, la quale possa derivare dalla volontà dello stesso soggetto passivo; per ciò di non adoperar mai questo semplicemente come mezzo, ma, nello stesso tempo, anche come fine».[6]

Tale formulazione è al centro della Critica della ragion pratica, e non fa che espressamente corroborare ciò che Kant ha detto nelle pagine precedenti e che dirà in quelle successive.

Cosa significa anzitutto considerare l’altro (uomo) come un fine e non semplicemente come un mezzo? C’è da precisare che per Kant l’umanità è santa. Perché? La risposta è intrinseca nell’uomo stesso in quanto è fautore di una volontà libera molto diversa rispetto all’animale in genere. Proprio questa libertà si trova formalmente espressa dalla legge morale, forma imprescindibile per la santità. L’uomo, pur essendo predisposto ad una tal specie di purezza, non la riuscirà a portare a compimento. Nell’individuo vi sono insite delle debolezze verso le enormità delle influenze esterne. Purtuttavia egli ha il dovere di provarci, di sentire dentro di sé quella vocina che gli dice cosa è giusto fare. Una voce che per Socrate era espressione del Daimon, mentre per Kant derivava dalla coscienza razionale che ogni essere dotato di ragione ha.

Questa idea si può inglobare nella teoria del riconoscimento. Tale teoria si occupa del diritto che in ogni società l’uomo dovrebbe avere. Consta nel fatto che quando un individuo è trattato come mezzo e non come fine, quest’ultimo inevitabilmente si sente isolato, escluso dalla società stessa in cui vive. Si sente, appunto, solamente un mezzo e non un fine nelle mani dell’altro. Questa teoria ha avuto maggiore successo con Hegel, in particolare nella dialettica servo-padrone ripresa poi nella sezione omonima all’interno della filosofia dello spirito soggettivo. Ma già in Kant, come abbiamo visto, c’è una teorizzazione del riconoscimento dell’individuo nella società.

L’umanità ai giorni nostri dovrebbe fermarsi, di colpo, d’improvviso, e mettersi ad ascoltare se stessa senza condizionamenti esterni quali il denaro, il potere, e ogni forma di egoismo. Questi oggetti esterni e oggetti della nostra idea (interni) non fanno altro che condizionare la nostra pochezza morale, evidenziando i limiti umani che di anno in anno fuoriescono dal mondo cosiddetto “perfetto”. Ogni giorno l’uomo è artefice di un pensiero negativo, atto a voler sopraffare l’altro in un modo o nell’altro. Così facendo l’”altro” non viene considerato in modo adeguato, anzi, ci sarà sempre una fetta di popolazione alta e una bassa. E questo noi non lo vogliamo. Forse il problema di fondo è la considerazione stessa dell’altro, come diverso, altro da sé.

Questa presa coscienza ci deve portare a riflettere seriamente su noi stessi. Su come ormai usiamo l’altro senza rendercene conto. L’idea della ragione pratica che si fonda sugli imperativi, sul dovere per il dovere, su ciò che dovremmo fare per agire moralmente, deve essere riportata in auge il più presto possibile.

Il concetto della libertà, d’altronde, si fonda su questa moralità razionale, noi siamo ragione. Certo, non totalmente, questo si sa. Ma è giusto e doveroso che nei comportamenti con l’altro si faccia avanti e prenda sempre più potere la Ratio, anziché lasciar fuoriuscire le passioni più inficianti dell’animo umano, quali la rabbia, l’odio e il risentimento poi sfocianti in vendetta.

Una riflessione su un possibile pensiero kantiano adattato ai giorni nostri, come si è visto, non è del tutto impossibile. Certo, le forzature dovute al necessario anacronismo non mancano ma non sono queste ultime che ci interessano. Quel che deve essere messo in auge e osservato attentamente non è altro che il condizionamento razionale o per lo meno, la forza che la ragione è chiamata a dimostrare contro le più forti inclinazioni che, mai come prima, sono radicate nel nostro secolo. Perciò, è giusto, nonché necessario, riprendere Kant e la sua morale del dover essere più che mai e sperare che questo diventi essere. Diventi un fatto pratico. Constatazione pratica atta a migliorare l’umanità attingendo da uno dei più importanti filosofi della storia. Trasformare i suoi limiti in reali possibilità. Tener conto del suo insegnamento critico, sempre in forza, sempre in fieri.

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[1] Cfr. Immanuel Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Bari 2010. [2] Aristotele, Etica Nicomachea, Bacheca Ebook, 2010, cit. p. 152. [3] Ivi, cit. p. 333. [4] Ivi, cit. pp. 333-335. [5] Ivi, cit. p. 289. [6] Ivi, cit. p. 191.

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