Letture novecentesche di Spinoza: Gilles Deleuze (2)

Proseguo nell’esposizione sintetica del bellissimo saggio che Gilles Deleuze (1925-1995) ha dedicato a Baruch Spinoza (1632-1677): Spinoza et le problème de l’expression (1968, tr. it. Spinoza e il problema dell’espressione, Quodlibet, Macerata, 1999). Il filosofo francese tratta della critica di Spinoza alla tesi cartesiana secondo cui la sostanza è una cosa che può esistere per se stessa”. Porre l’esistenza per sé, e non per altro, come fosse una mera possibilità, è contraddittorio. Spinoza dimostra che, invece, la sostanza esiste solo in atto e che, quindi, non possono esistere più sostanze dello stesso attributo, ma esiste un’unica sostanza infinita, i cui attributi (pensiero ed estensione) sono realmente, ma non numericamente distinti dalla stessa. Per Spinoza il rischio è quello di fare della distinzione reale una distinzione numerica, confondendola con la distinzione modale, cioè, riferita ai modi esistenti e finiti, che sono tra loro numericamente, ma non realmente, distinti. La causalità esterna ha senso rispetto solo a questi ultimi, perché ogni modo esistente rimanda ad un altro modo proprio perché non può esistere per sé. Osserva Deleuze: “Quando applichiamo alle sostanze questa causalità, la facciamo intervenire al di fuori delle condizioni che la legittimano e la determinano. L’affermiamo a vuoto, togliendole ogni determinazione. Insomma, la causalità esterna e la distinzione numerica condividono la stessa sorte: si applicano ai modi e soltanto ai modi”. (cit., p. 23). La distinzione reale non può essere anche numerica. Ne consegue che “non solo la distinzione reale non rimanda più a sostanze possibili distinte in numero, ma anche la distinzione modale, a sua volta, non rimanda più agli accidenti come determinazioni contingenti”. Non solo. Come non esiste una possibilità della sostanza rispetto all’attributo, così non esiste una contingenza del modo rispetto alla sostanza. Spinoza svuota il concetto aristotelico di accidente, che ancora Cartesio (1596-1650) riteneva utile conservare, pur negandone la realtà, per spiegare il prodursi dei modi da parte della sostanza. Invece, “tutto è necessario, o per l’essenza o per la causa: la Necessità è l’unica affezione dell’Ente” (cit., p. 28). Per Spinoza quindi gli attributi si distinguono dalla sostanza in quanto sono una sua espressione, per cui la sostanza non esiste al di fuori della sua espressione, ma viene espressa come l’unico ente la cui esistenza appartiene necessariamente alla sua essenza. Per Spinoza gli “attributi” sono forme dinamiche e attive, “attributori”, che si presentano come veri e propri verbi con un valore espressivo: essendo dinamici non sono più attribuiti a sostanze variabili, ma attribuiscono qualcosa ad un’unica sostanza. E attenzione! Ammonisce Deleuze. “Gli attributi non sono astratti dalle cose particolari, e non sono neanche trasferiti a Dio in modo analogico” (cit. p. 32) perché c’è una comunanza di forme delle creature con Dio pur nella distinzione di essenze. Riassume con splendida acutezza Deleuze: “Gli attributi sono forme di essere infinite, ragioni formali illimitate, ultime, irriducibili; sono forme comuni a Dio, di cui conosciamo l’essenza, e ai modi che li implicano nella loro essenza. Gli attributi sono verbi che esprimono qualità illimitate; queste qualità sono per così dire implicate nei limiti del finito. Gli attributi sono espressioni di Dio; queste espressioni sono univoche, costituiscono la Natura stessa di Dio come Natura naturante, sono implicate nella natura delle cose, o Natura naturata, che, in un certo senso, le ri-esprime a sua volta” (cit., p. 35).

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