Il distacco mistico in Meister Eckhart

Il pensiero e lo spiritualismo

Come può un essere materiale, o, ancor più l’Io psicologico distaccarsi da sé e dalle sue proprie passioni e sensibilità, precipuamente utili per il mondo delle cose? Tutto quello che definisce e costituisce l’Io logico, per il mistico, diventa un ché di inconsistente. Solo colui che abbia la forza di distaccarsi da ogni contenuto, da ogni determinato, diventa un uomo umile, unito a Dio. Solo e soltanto questa unione riesce a concretizzare l’ideale di pace che si richiama alle intenzioni recondite. Così ci dice anche Antonello Lotti: «Cancellando l’io psicologico, ciò che la mistica chiama morte dell’anima, si cancella infatti l’alterità dell’essere, si entra nell’Uno e nella pace».[1]

La virtù umana, pur essendo qualcosa di considerevole insieme alla saggezza, anzi, la saggezza è sempre stata sinonimo di virtù e in particolar modo nella riflessione antica, in questo contesto eckhartiano non assume valore. Nel caso specifico della riflessione di Eckhart, le cose cambiano, raggiungendo un significato totalmente opposto a quello appena posto. Egli si rifà ad un ideale post-aristotelico, di chiaro stampo plotiniano. La dottrina dell’Uno inerente al filosofo neoplatonico, rappresenta molto più da vicino l’idea eckhartiana di Dio e di come l’uomo, in più, dovrebbe pensarsi insieme all’Essere. Ad interessare è quindi la relazione che l’umano intrattiene con Dio, come egli, nel corso della storia, abbia avuto il culto non dello pseudo-dio metafisico, di un dio intriso di finito. L’oggettivazione del dio taumaturgico, secondo il maestro, è una rappresentazione sbagliata, poiché le preghiere dell’uomo in questo senso sono rivolte ad una finalità umana, già di per sé sfaldate da una originale spiritualità. Dio assume in tal modo la fisionomia del Padre Misericordioso e del Gran Faraone al tempo stesso, che dà e toglie a suo piacimento e che quindi il fedele deve solo sperare di ingraziarsi mediante rituali codificati che si riducono alla mera esteriorità, senza toccare minimamente la dimensione più riposta dell’anima, quella della vera spiritualità.[2]

Il distacco, per quanto sia così vicino al nulla, è accessibile solo a Dio. Eckhart parla anche della differenza tra l’umiltà e il distacco. La prima, secondo molti maestri è la più grande delle virtù. Il problema della riflessione del nostro filosofo risiede, come già anticipato, nella presa consapevolezza dell’uomo verso quale tipo di essere muoversi, materiale o spirituale. Questo movimento deve avvenire solo attraverso l’utilizzo dell’intelletto come casa dell’essere. Questo segue l’automatica distanza che intercorrerebbe dalla materia. Questo dio è visto in modo totemico, di conseguenza, non come la vera spiritualità. «In secondo luogo lodo il distacco più dell’umiltà perché la perfetta umiltà si piega sotto tutte le creature, e l’uomo, piegandosi in tal modo, esce da sé per andare verso le creature, mentre il distacco rimane in se stesso».[3] L’uscire da sé non è più nobile del rimanere in sé. Con il distacco si è tra la propria anima e Dio; la relazione che si deve instaurare è solo ed esclusivamente questa. Il vero distacco non si cura di nessuna creatura, né di alcuna sofferenza né dell’amore, né sta sotto e né sta sopra; il suo fine è solo quello di stare per se stesso, «[…] non vuole altro che essere».[4] Tutte le virtù dell’uomo, per quanto misericordiose che siano, non saranno mai come il distacco, poiché questo rimane immune di fronte alla più influente materia, rimane in sé e per sé. Da Dio e per Dio. Come se fosse un sostrato creato da Dio, e solo quest’ultimo, attraverso la sua volontà, è capace di chiamarci nel distacco. L’uomo, da parte sua, deve essere anche ben predisposto alla spiritualità, per antonomasia, e non all’utilitarismo religioso. L’uomo distaccato di fatto non prova gusto nelle cose terrestri in quanto egli conosce una sola propensione, quella verso l’essere, e quella di essere con l’Uno e staccato da tutto il resto. Così ci spiega Eckhart: E l’uomo che sta in questo totale distacco è così rapito nell’eternità che nulla di transeunte può commuoverlo, a nulla di corporeo egli è più sensibile, ed egli è detto morto al mondo poiché non trova più gusto in ciò che è terrestre. È ciò che pensava san Paolo quando disse: «lo vivo, e tuttavia non vivo: Cristo vive in me».[5]

L’uomo se vuole rassomigliare a Dio, deve anche essere imperturbabile di fronte all’amore, al dolore, alle tribolazioni e al disprezzo come una roccia che resiste alle onde del mare. Solo con la Grazia di Dio l’uomo può essere pieno di Dio e vuoto di creature. Riprendendo la pratica ascetica, eremitica, Eckhart mira alla rinuncia di tutto ciò che abbia un carattere temporale, che siano cose o persone. La rinuncia, il distacco, è verso il creaturale in quanto essere ed ha la capacità di influenzare: come un vortice che ci risucchia una volta caduti all’interno. Questo problema può e deve essere risolto attraverso il Nous[6]. Seguendo l’idea di Porfirio nel concepire l’intelletto come tempio di Dio, questo non può che essere strumento che consente di utilizzare la dialettica e di discernere il vero procedimento del rapporto con la spiritualità. L’anima deve rimanere nella luce dell’intelletto e non si deve occupare dei contrari. Se pensiamo alla teologia razionale di San Tommaso d’Aquino, il riscontro teorico e contenutistico risulta essere l’opposto se paragonato alla riflessione di Meister Eckhart.

L’Aquinate utilizzava una dialettica razionale sostanzializzata dalla logica aristotelica; il filosofo tedesco invece si rifà ad una mistica a-razionale, nel senso di sovvertire il sillogistico aristotelico. Questa esclusione della ragione logica dei contrari, mira ad una elevazione dello spirito che altrimenti non potrebbe esserci, avendo superato l’attaccamento all’Io psicologico di cui sopra. Il lavoro della logica nella separazione dei contrari, come bene-male, giusto-ingiusto, coglie delle dimensioni che fossilizzano l’anima nel terreno del finito. La riflessione eckhartiana della logica dei contrari è di una importanza cruciale per la storia del pensiero tedesco, come alcuni autori successivi hanno tenuto ad evidenziare. In particolare, lo Hegel affermava che la riflessione di Eckhart ha dato vita al pensiero filosofico tedesco.

Il giudizio sulle questioni terrene non interessa al distacco, in questo e nella pura e originale spiritualità tutto e bene e tutto e male allo stesso tempo, non vi sono criteri di valutazione scaturiti da una regola. Non si è più servi della dimensione determinata, e per attuare questa libertà con Dio, è necessario ritrovarsi in se stessi nella dialettica della mistica. Il distacco non è un atto dello spirito, bensì è lo spirito stesso. L’insegnamento fondamentale del Meister è focalizzato all’unità dello spirito di Dio con lo spirito dell’uomo, e questa dicotomia, in verità, è nella riflessione annullata. «Lo spirito è quel “fondo dell’anima” di cui Eckhart parla spesso in diversi modi, avendo però cura di distinguerlo sempre da tutte le altre potenze dell’anima, e che identifica col “fondo” stesso di Dio».[7]

Per quanto riguarda lo spirito, esso è il mezzo grazie al quale può sussistere l’unione fondamentale con l’essere superiore. Questo è individuabile come un non-luogo in cui ogni domanda sul senso delle cose perde di significato. Esso non ha contenuto alcuno, al suo interno c’è il nulla. Di conseguenza, il suo non senso non ammette né spazio né tempo. Solo esso può essere in diretta comunione con Dio, essendone il fondamento, il substrato. In tedesco il termine che caratterizza tale fondo è Grund o, se si parla di abisso, Abgrund. Quindi, proprio perché fondamento, non si determina come qualcosa di creaturale o finito ma di sostanziale e quindi di infinito. La coappartenenza con Dio è possibile solo sul fondo dell’anima, dove non vi sono vie di uscita che portano su piani scissi dall’Uno. Il fondo non è da confondersi con l’ignoto, l’inconscio rintracciato dalla psicoanalisi. Secondo questa scuola, l’inconscio è l’esplicazione delle passioni interne, mentre l’apex mentis eckhartiano è la condizione della totale intelligibilità, dell’assoluta chiarezza derivante dalla piena comprensione.[8] La conoscenza dell’uomo spirituale, che è riuscito ad estraniarsi dal mondo materiale e dai falsi idoli, sarà di un livello superiore; come chi conosce la bianchezza in sé, rispetto a chi per conoscere il bianco, deve prima vederlo. L’uomo spirituale, deve superare Dio per essere come Dio. Come è possibile una cosa del genere? Partiamo col dire che Eckhart vuole ricondurre l’essere umano all’elevazione di Dio, per far ciò è necessaria l’unione con Dio; questa può avvenire solo attraverso la grazia di Dio. Quest’ultimo è ciò che è, grazie alla sua natura; l’uomo per divenire come lui ha bisogno del distacco. Vi è la teorizzazione dell’unificazione essenziale come quando Iddio non aveva ancora creato alcunché, quindi, tutto era in lui come una cosa una e sola, e in perpetuo.

Non bisogna però equivocare il fatto che è sempre Dio a renderci partecipi della sua unità, della sua Grazia. Il distacco quindi non esclude il mondo, bensì esclude una esistenza per recuperare una somiglianza all’Essere, con questa somiglianza noi ci sentiamo omaggiati e onorati di essere “come” Dio. Vi è nell’intelletto, come si è già accennato, una potenza determinante capace di elevare l’intero essere umano. Esso, in primo luogo, non risiede né nello spazio e né nel tempo, nel qui ed ora. Questo ci mostra come pur non avendo una posizione spazio-temporale, l’intelletto ha più capacità di spingersi verso il mistico; verso il nulla e verso il tutto allo stesso tempo, oltreché verso il paradossale. Ha altresì la qualità di non essere simile a niente. Questa asserzione ci dice che ugualmente a Dio che è tutto nella sua unità, anche l’intelletto, creato e per questo più vicino a Dio, è tutto; proprio per il fatto di essere tutto, è un niente. Qui è rintracciabile in modo più evidente, come la paradossalità delle considerazioni eckhartiane siano evidenti, proprio perché connotate di misticismo. L’anima o intelletto non ammette molteplicità al suo interno. Questo è evidente se pensiamo al fatto che per essere simili a Dio, la nostra anima deve essere per se stessa senza condizionamenti esterni; rimanendo immobili ed eterni.

L’intelletto per sua stessa natura mira a ricercare se stesso e Dio al suo interno. Diversamente agisce invece la volontà, che guarda sempre e solo verso l’esterno, sia pure ammesso che si parli di volontà d’amare; si ama qualcuno che è fuori di noi, quindi, già per questo, scisso tra l’infinito dell’anima e il finito della creatura. Si conclude quindi che l’anima/intelletto è di natura infinita e immobile come la stessa sostanza di Dio è. In ultimo, l’intelletto è un’immagine. Ogni immagine è strettamente correlata all’immagine originale. Quest’ultima è riconducibile all’immagine di Dio, a Dio stesso in quanto lui artefice di tutto il creato.

«Dio, con la sua onnipotenza, non può riconoscere in ciò alcuna distinzione, perché insieme vengono generate e insieme muoiono. Se mio padre muore, non muoio perciò io. Quando muore, non si può dire “è suo figlio”, ma piuttosto si dice “era suo figlio”. Se si fa bianco il muro, in quanto è bianco è uguale ad ogni bianchezza. Se si fa nero, allora è morto ad ogni bianchezza. Vedete, lo stesso è qui. Se sparisse l’immagine formata secondo Dio, se ne andrebbe anche l’immagine di Dio».[9]

Ne possiamo discernere che l’intimo rapporto tra Dio e l’anima si connota non solo come somiglianza ma soprattutto come identità. Per questo Meister Eckhart nella famosa predica[10] invita i fedeli a pregare Dio affinché li liberi da dio[11]. Questo perché nella sua concezione, una volta liberati da questo dio fasullo e dirottatore, l’anima potrà congiungersi in una unità spirituale con il solo Dio creatore. Poiché Dio è considerato nella concezione eckhartiana come l’Uno[12], esso per definizione è quindi opposto al molteplice. Egli infatti respingeva l’equivalenza tomistica tra Dio e le creature. Nella concezione tomista Dio, essendo creatore del tutto, ha infuso parte della sua essenza divina alla molteplicità. Questo fatto ha quindi reso possibile la somiglianza sostanziale tra Dio e il molteplice, di naturale derivazione dalla volontà divinità.

Si capisce subito come questa concezione di “analogia” non possa essere accettata nella riflessione del nostro filosofo. Infatti, nella celeberrima frase del Vecchio Testamento che vede protagonista il Signore, interrogato sulla sua identità da Mosè sul monte Sinai, risponde così: «Ego sum qui sum»[13]. Secondo l’interpretazione tomista, la frase è stata tradotta con «Io sono l’Essere». E’ evidente di come l’interpretazione non poteva che essere in questo modo, intesa a voler corroborare le tesi tomiste di cui sopra. Eckhart invece, tradusse la frase con: «Io sono quel che sono». Questa formula ha rilevanza diallelica, tautologica; non accenna a dire niente di nuovo, se non il vuoto e il tutto di quel che Dio è. L’unica conferma è questa. D’altronde, la filosofia tomista è né più né meno che teologia positiva, e in quanto ciò deve affermare qualcosa, deve poter dire cosa Dio è e cosa non è. Il tutto sotto l’occhio vigile della ragione.

Dio, prima che Essere, è Pensiero. Non un pensiero attraverso lo strumento della logica, catafatica, ma attraverso il non dire, precipuamente attraverso la formula apofatica. Solo quest’ultima si consegna nelle mani del misticismo di cui Meister Eckhart predispone la sua riflessione su Dio. Essendo che il pensare è un atto che permane in se stesso, Dio coincide col pensare. Di contro invece, la molteplicità della creaturalità coincide con l’essere del mondo. Attraverso questa distinzione Eckhart intende allontanarsi da quell’analogia tomista che tende ad accostare Dio con le altre creature.

E’ sempre e solo l’anima intelligibile a connaturare la relazione con Dio. E’ questa che sceglie di non darsi a Dio e di far sì che Dio la scelga e la riporti alla relazione fondamentale. «Quanto più presto, l’uomo fugge dalle creature, tanto più presto il creatore accorre a lui».[14] La teoria mistica del distacco quindi ha come obiettivo il superamento dell’uomo vecchio, ancorato ormai ad inconcludenti manifestazioni della vista esteriore, per raggiungere l’uomo spirituale, diverso, che ha come unico strumento il pensiero che alberga in se stesso. Il contatto con le creature, quindi, è sempre un indebolimento dello spirito.

La dottrina eckhartiana, che si sviluppa in concomitanza con la riforma della Chiesa cattolica nella fine del XIII secolo, pone al suo interno l’ascetismo monastico dei nuovi ordini indetti dal potere ecclesiastico, come quello francescano e domenicano, in quanto miravano ad uno stile di vita povero, quindi all’allontanamento dei beni esteriori e spesso conducendo una vita eremitica. Il distacco quindi è la coincidenza con la vera vita. Tanto più ci si allontana dalla carnalità e dalle passioni terrene, tanto più ci si avvicina a Dio e alla vita spirituale. «Il distacco è perciò migliore di tutto, poiché purifica l’anima, rischiara la coscienza, infiamma il cuore, risveglia lo spirito, ravviva il desiderio, fa conoscere Dio, separa dalla creatura e si unisce a Dio».[15] E’ il vero comportamento che un cristiano dovrebbe scegliere. Per se stesso, per la sua spiritualità e per il suo sicuro incontro con Dio. Non una relazione dai connotati utilitaristici ma una fusione con lo spirito della divinità. Questo Meister Eckhart con la sua riflessione apofatica intende specificare.

Considerazioni

Inevitabilmente bisogna fare delle considerazioni derivanti direttamente dalla riflessione mistica che vede coinvolto il nostro autore. Non è cosa semplice trattare e interrogarsi sulla mistica del XIII secolo. Tale pratica intende svolgere lo spiritualismo nella vita. L’ascetismo volto al superamento della carne e delle passioni più materiali per uno scopo che mira al raggiungimento dello spirito è, in fin dei conti, quello che Eckhart ricerca nella sua riflessione teologica. Questo termine è direttamente proporzionale a quello della mistica, pratica contemplativa della sfera del sacro. E del sacro e della divinità Eckhart vuole parlare, nello specifico, della dicotomia tra sfera spirituale e sfera materiale. La sfera spirituale sottintesa dal nostro autore è da rintracciare nella totale astinenza e allontanamento dalla sfera esteriore e sensibile. Lo spirito vuole se stesso e niente più. E’ già pieno in sé e per sé. Solo esso può incontrare la divinità, e la divinità si lascia incontrare solo così, nella totale astinenza e nel totale nulla/tutto. Meister Eckhart essendo un mistico, è un avversatore del sensibile e del materiale. Ma la domanda viene spontanea: in che modo li combatte? Il Cristo, nei suoi discorsi, più volte ha parlato della morale che gli uomini dovrebbero assumere in questo mondo. Per il Messia, questo mondo è un mondo fatto di peccati che si commettono di giorno in giorno, senza tregua alcuna, condannando così il genere umano al dovere di espiare le proprie colpe per poter accedere al vero mondo, quello divino. Il Maestro riprende tale insegnamento, esternando la sua idea di divinità come un unum deum, il quale rappresenta la totalità nella sua inesplicabilità razionale. Il tentativo della scolastica di aver posto una teologia positiva non fa altro che evidenziare ancor di più come la potenza divina non può essere portata a spiegazione razionale e logica. Tale forma onnicomprensiva può esser conosciuta solo attraverso l’auto-esplicazione spirituale, in altro modo, tramite la concordanza e il distacco dalla materialità del mondo reale.

[1] http://www.mistica.info/uneckhart.htm. [2] http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/misticacristiana/gerosa.htm. [3] Maestro Eckhart, Trattati e prediche, Rusconi, cit. p. 173. [4] Ibid. [5] Ivi, cit. p. 175. [6] Intelletto supremo. [7] http://www.mistica.info/uneckhart.htm. [8] Cfr. http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/misticacristiana/gerosa.htm. [9] Cfr. http://www.filosofico.net/eckhart.htm. [10] Beati pauperes in Spiritu. [11] Qui Eckhart si riferisce al dio della tradizione, totemico e terreno. [12] Chiara qui l’influenza neoplatonica. [13] Esodo 3,14. [14] Maestro Eckhart, Trattati e prediche, Rusconi, cit. p. 183. [15] Ibid.

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