Logos e Mythos nella psyché umana (pt. 2)

Le teorie della scuola stoica come punto di partenza per interpretare l’intelletto

Nella prima parte ci siamo lasciati con un interrogativo riguardo alla natura del Soggetto in quanto dotato di logos (intendendo sia linguaggio che intelletto), se sia da vedersi come un processo “metabolico” sia fisico che psichico oppure sia un qualcosa d’altro che non implica né il mio corpo (ma il suo uso sì), né il mondo esterno. Facciamo ora un ulteriore passo in avanti. Per spiegare meglio il mio pensiero vorrei citare la teoria dello specchio di Lacan: in questa teoria si parla della prima esperienza “di sé” che avviene nel bambino, tra i 6 e i 18 mesi.Trovandosi a confronto con la propria immagine riflessa nello specchio vive 3 fasi:

  1. identifica questa immagine con quella di un altro, di uno sconosciuto.
  2. è in grado di riconoscere l’altro, ma solo come immagine e non come reale.
  3. il bambino riconosce l’altro come propria immagine riflessa.

In questa ultima fase il bambino si percepisce come evento, percepisce il suo hic et nunc e la sua forma, capisce di non essere un’entità unica con la madre del quale fino a quel momento era appendice. Il bambino si identifica con la sua immagine riflessa, che non è lui stesso ma che percepisce come un semi-sé. Questo riflesso serve a produrre in lui l’idea della forma totale del suo corpo, come qualcosa che è più di una somma di parti, il bambino si sostanzializza. È qui che inizia ad avere una visione a 360° del mondo e che comincia il moto circolare: esperisce il mondo partendo da sé, l’eccedenza di logos “fuoriesce” e fa esperienza del mondo, e poi torna in sé ed elabora razionalmente ciò che ha sentito. Inizia ad avere una percezione quasi narcisistica del mondo esterno, non c’è rapporto simbiotico perché tutto passa dalle nostre elucubrazioni. Percepiamo noi stessi e il mondo come il risultato di un insieme di stimoli selezionati dal nostro sistema percettivo, quello che gli stoici chiamavano hegemonikón. Quest’ultimo costruisce una figura definita rispetto ad uno sfondo indifferenziato, come una Monnalisa su uno sfondo indefinito. Tali stimoli però non vengono percepiti diversificando gli uni dagli altri, ma vengono organizzati in modo da rispondere al bisogno di costruire significati basati sull’esperienza percettiva dell’ambiente.

Il bambino in questa fase non ha ancora piena capacità motoria ma allo stesso tempo capacità cognitive abbastanza elevate per ri-conoscersi allo specchio. Vive il paradosso di essere insufficiente in quanto deve dipendere dalla madre per il soddisfacimento dei suoi bisogni ma al contempo vive l’esperienza dell’auto identificazione, un doppio binario fatto di insufficienza e anticipazione, in cui viene trascinato dall’evento a generare un oggetto cognitivo, la sua forma. Questa visione “dall’esterno” poi continuerà ad esistere, facendo sì che quell’immagine riflessa continuerà ad essere oggettivata, percepita come manifestazione di un’alterità che non sempre coincide con l’idea di noi stessi: inizia ad esserci un rapporto conflittuale tra il “sé teorico” ed il “sé pratico”. Questa forma verrà utilizzata inoltre come crisalide, o addirittura come armatura per il confronto dell’alterità a seconda di quanto ci sentiamo coincidenti con essa o meno.

Parafrasando Platone e la sua concezione di arte come mimesi della mimesi delle Idee, in questo caso abbiamo la brutta copia dell’idea che il nostro logos ha della nostra forma. Questo riflesso esce dal tempo raggiungendo un apeiron nel quale il fruitore ha una percezione sempre diversa (come esperienza soggettiva) e che nell’autore invece permane come un rumore di fondo, una lotta interiore per autoriconoscersi.

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