Logos e mythos nella psiché umana (pt.3)

Le teorie della scuola stoica come punto di partenza per interpretare l’intelletto

Nella seconda parte, partendo dalle teorie lacaniane, abbiamo visto il complesso processo della formazione del Soggetto come un agente etico che prescinde il nostro corpo ed il mondo esterno ma dai quali è implicato.

Torniamo finalmente al titolo: perché parlo di mythos? Tutti quelli che si approcciano alla storia della filosofia, come prima cosa, parlano della dicotomia tra mythos e logos, di come la ricerca delle ragioni d’essere siano passate dal mito e dal divino all’uomo e la sua razionalità. Il mito era uno spiegare un fatto irrazionale con una narrazione antropocentrica, nel tentativo di dare un senso a tutto quello che non si capiva, nel campo del trascendentale. E non è forse così che ci approcciamo spesso al nostro inconscio? Ci sono alcune immagini, alcuni traumi, alcune pulsioni che nella fase onirica vengono metabolizzate e metaforizzate nell’inconscio per giungere alla loro catarsi. Ma quando ciò non avviene? Quando l’inconscio non riesce ad elaborare ciò che lo disturba e inizia a vagare come un fantasma nella nostra mente infestando “la stanza”?

È qui che il nostro inconscio, il nostro alogon stoico genera come meccanismo difensivo questi miti, queste rappresentazioni inspiegabili e poste su un altro livello, per lasciare una traccia atemporale di un non detto, una eccedenza negativa di logos che non muta in parola in quanto inspiegabile e che si fa immagine distorta ed enigmatica come quella di un rebus che l’analizzando non sa risolvere e che lo inquieta. Come nel caso studio freudiano dell’uomo dei lupi, il sogno diventa forma pura e vivente nella memoria del soggetto. L’apeiron del ricordo però funziona in maniera bizzarra ed imperfetta, ecco perché ad ogni tentativo di evocare quell’oggetto, quell’immagine, il nostro soggetto non ricorda bene la quantità di lupi presenti sull’albero, ma ricorda altre immagini evocative come quelle V e W onnipresenti e fulcro vero della domanda latente. È qui che rientra sbattendo la porta l’idea che in fondo qualsiasi prodotto della mente sia frutto di quell’eccesso di logos che si manifesta nel dire, fare e pensare.

È quell’alogon che dobbiamo cercare ed interrogare per risolvere il non detto, il non fatto, il non pensato. Ed è anche la chiave di lettura del Soggetto. In questo universo parallelo ed atemporale, come quello mitologico, esistono enti che vivono vite a se stanti, prigioniere come della “loggia nera” di David Lynch ma che esistono solo dentro di noi. Una vita dentro la vita, una vita non vissuta che, come nel film Matrix, viaggia parallelamente alla nostra e che, come in uno spaventoso incidente, a volte riemerge nella sua tragicità, con tutto il suo contenuto traumatico e passionale, come ad esempio il giovane che cerca nelle sue partner tratti che ricordano la madre per sopire vecchi rancori e dolori, creando schemi ripetitivi e disturbati. E se allora tutto ruota attorno all’immagine, all’astrazione del logos, castriamolo e costringiamolo a non immaginare, per evocare i demoni dell’alogon con cui fare una volta per tutte i conti.

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