La teoria delle implicature conversazionali di Paul Grice

Solitamente ci serviamo degli enunciati[1] per trasmettere un contenuto informativo che varia a seconda del contesto e che non coincide con il loro significato letterale. Quando ciò avviene bisogna tener presente che il significato letterale di un enunciato non diventa irrilevante, anzi, siamo in grado di afferrare ciò che in tali casi viene comunicato dall’enunciato, solo perché ci è noto il suo significato letterale. Questo aspetto è evidenziato dalla teoria delle implicature conversazionali di Paul Grice. Secondo il filosofo britannico, ogni conversazione segue un principio di cooperazione al quale i parlanti devono contribuire in modo appropriato.

A tale scopo, secondo Grice, è necessario che ciascuno rispetti quattro massime:

  • Massima della quantità: bisogna fornire informazioni in misura né maggiore né minore di quanto è al momento richiesto dalla conversazione;
  • Massima della qualità: non dire cose che ritieni o credi false, o per cui non hai prove adeguate;
  • Massima della relazione: dici cose pertinenti;
  • Massima del modo: parla in modo chiaro e ordinato, evita oscurità, ambiguità e prolissità.

Tendenzialmente queste massime vengono rispettate, anche se alcune volte esse vengono violate (non perché ci si voglia sottrarre agli impegni di una conversazione), ma perché violandole si riesce a comunicare qualcosa che vada oltre il significato letterale degli enunciati. Questo eccesso di significato è ciò che Grice ha definito “implicatura conversazionale”.

«Uno degli esempi di Grice è il seguente. Al professor X viene sollecitato un giudizio sul conto di Y, un suo ex allievo che vorrebbe ottenere un posto di insegnante di filosofia. Il professor X risponde:

Y scrive in buon italiano e ha frequentato il mio corso con regolarità.»[2]

L’interlocutore di X ne deduce che Y di filosofia sa pochissimo o quasi nulla. Infatti il professor X sembra aver violato una delle quattro massime, precisamente quella della quantità. Le sue parole, prese alla lettera, non sembrano fornire un giudizio che soddisfi i requisiti richiesti dal contesto. Per quale motivo X è stato così laconico? In prima istanza non c’è motivo di credere che voglia sottrarsi all’impegno della conversazione; quindi, che non voglia contribuire al buon andamento di quest’ultima; in secondo luogo nemmeno la sua presunta violazione della massima della quantità può dipendere dal desiderio di rispettare la massima della qualità (come il più delle volte accade). Infatti in questo caso X conosce molto bene Y e potrebbe fornire sul suo conto un giudizio più strutturato. Stabilito questo, l’unica ipotesi plausibile che può aver spinto il professor X ad essere così taccagno di informazioni, è che non ha voluto esprimere un giudizio che sarebbe stato probabilmente negativo. In base a questa ipotesi, l’interlocutore di X, conclude che Y secondo X non capisce nulla di filosofia. Osservando attentamente si può notare come in realtà X abbia fatto finta di violare la massima della quantità, calibrando attentamente la risposta in modo tale che il suo interlocutore potesse giungere ad una tale conclusione.

Con questo esempio Paul Grice, ci mostra come le implicature conversazionali pur eccedendo il significato letterale degli enunciati, in realtà possano essere afferrate soltanto quando ci è noto quest’ultimo.

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[1] Frasi dichiarative o assertive che utilizziamo per dire come stanno le cose. Tali frasi trasmettono un contenuto informativo o conoscitivo attraverso la predicazione di qualcosa su qualcosa.

[2] Paolo Casalegno, Filosofia del linguaggio, Carocci editore, Roma 2005, p.20.

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Un commento

  1. Molto, molto interessante. Se ho capito bene, si può affermare che, in alcuni contesti dialettici, quello che NON viene detto sia più importante di ciò che viene detto.
    Se è così, il concetto si può adattare anche alle sedute di psicanalisi dove il paziente, parco di parole, dice molto di più di quanto egli creda.

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