La passione per le passioni di Spinoza (2)

Nell’articolo precedente, il primo che intendo dedicare alle passioni nel pensiero di Baruch Spinoza (1632-1677), si è visto come egli faccia dipendere l’accendersi delle passioni nell’animo umano dalla inadeguatezza delle idee che lo animano .Ma si farebbe torto al suo pensiero se si pensasse che egli faccia derivare le passioni solo da idee inadeguate. La vera ragione della passione risiede nel fatto che l’essere umano è, per definizione, parte della Natura e che niente si possa fare perché non sia così. Come essere della natura, l’essere umano è necessariamente sottoposto ad una causalità che egli non crea; come parte della natura egli non è responsabile della causalità che l’ingloba ed è posto costantemente davanti a forze che lo sovrastano. “Siamo passivi in quanto siamo una parte della natura che non può essere concepita per sé senza le altre” e “La forza per la quale l’uomo persevera nell’esistenza è limitata ed è superata infinitamente dalla potenza delle cause esterne” (Etica, IV, Proposizioni II e III,  in Spinoza, Opere, I Meridiani Mondadori, 2007, p. 977-978). Per comprendere questa passività dell’essere umano rispetto alle passioni che lo agitano non è dunque sufficiente riferirsi solamente ad una conoscenza imperfetta, ma occorre rapportarsi una situazione oggettiva: l’essere umano non è la totalità, ma è parte di una Natura infinita. Ciò significa che, per propria natura, l’essere umano non è fondamento di sé stesso o il principio necessario e sufficiente della propria esistenza. Vi è come un’alienazione insuperabile nell’obiettiva condizione dell’essere umano. Forse uno dei grandi meriti dello spinozismo è quello di avere posto all’inizio dell’Etica, vale a dire di una dottrina della libertà, il fatto stesso della dipendenza, della finitezza e della contingenza come elementi costitutivi della natura umana: “L’essenza dell’uomo non implica necessariamente esistenza; cioè, secondo l’ordine della natura, può avvenire tanto che questo e quell’uomo esistano, quanto che non esistano” (Etica, II, Assioma I, cit., p. 836).  Si tratta di un fatto, cioè di un dato inoppugnabile, non di una colpa o di un vizio. Per Spinoza la caducità dell’essere umano non è frutto di un peccato originale, ma è un semplice dato oggettivo, che nasce dal suo essere parte di un’unica sostanza infinita.  Si tratta di una differenza considerevole. Se la finitezza è un fatto, si può capirlo, conoscerlo e prevedere un’azione che ne tenga sufficientemente conto per non essere illusoria o vana. Il realismo fa, quindi, perfettamente parte dello spirito spinoziano. Ma si tratta di un realismo che proviene dalla lucidità di questo spirito quasi scientifico, nel senso più ampio e più forte. È, in fin dei conti, la più rigorosa conoscenza dell’essere umano che esige che si riconosca la sua dipendenza e la sua integrazione nel vasto sistema delle cause naturali. La consapevolezza di questa condizione impedisce di cadere, quindi, nella trappola di quelle meditazioni edificanti su di un vizio originario che connoterebbe il cuore umano rendendolo incline al male o infelice o da compatire.

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