Letture novecentesche di Spinoza: Gilles Deleuze (18)

Scrive Gilles Deleuze nel capitolo diciassettesimo del suo saggio Spinoza et le problème de l’expression (1968, tr. it. Spinoza e il problema dell’espressione, Quodlibet, Macerata, 1999) che per Baruch Spinoza (1632-1677) le condizioni nelle quali formiamo le nostre idee sembrano condannarci ad avere solo idee inadeguate, e le condizioni nelle quali siamo affetti paiono condannarci ad avere solo affetti passivi.  Gli affetti che colmano naturalmente la nostra capacità di essere affetti sono passioni che ci diminuiscono, che ci separano dalla nostra essenza e dalla nostra potenza di agire. Ogni passione, però, pur separandoci dalla nostra potenza di agire, non lo fa allo stesso modo, ma secondo un “più” o un “meno”. Le passioni, infatti, possono essere di gioia o di tristezza: le prime aumentano o assecondano la nostra potenza, le seconde, invece, la diminuiscono o la ostacolano.  Ma non basta che la nostra potenza di agire aumenti sulla base di affezioni passive di gioia. Infatti, una somma di passioni non produce un’azione. Occorre avere affezioni attive, che sono necessariamente affezioni di gioia (la tristezza non è mai attiva). La gioia attiva  è altro rispetto alla gioia passiva. E tuttavia Spinoza suggerisce che la distinzione tra le due non è altro che una distinzione di ragione. I due affetti, infatti, si distinguono secondo la causa; la gioia passiva è prodotta da un oggetto che si accorda con noi, ma di cui non abbiamo ancora un’idea adeguata. La gioia attiva, invece, è prodotta da noi, nasce da una idea adeguata in noi. Le gioie passive si accordano con la ragione, le gioie attive nascono dalla ragione. Le affezioni indicano comunque indicano sempre l’effetto di un corpo esterno su di noi. Ma a partire da questo effetto, possiamo formarci l’idea di ciò che è comune al corpo esterno e al nostro. Tenendo conto delle condizioni in cui viviamo, si tratta dell’unico modo di cui disponiamo per formare un’idea adeguata. Questa idea di “qualcosa in comune” con la Natura è la prima idea adeguata che abbiamo. È quella che Spinoza chiama la nozione comune. “Comune” non significa solo ciò che è comune a due o più corpi, ma anche ciò che è comune alle menti in grado di formarne un’idea. Accade, però, che, quando proviamo un affetto cattivo, un affetto passivo triste prodotto da un corpo che non concorda con il nostro, nulla ci induce a formare l’idea di ciò che è comune a questo corpo e al nostro. “Nessuna cosa può essere cattiva per ciò che ha in comune con la nostra natura: ma in quanto per noi è cattiva, in quanto è a noi contraria” (Ethica, IV, Proposizione 30). Queste spiega, perché le prime nozioni comuni che formiamo sono le meno universali, perché le nozioni più universali, applicandosi a corpi contrari al nostro, non trovano nelle affezioni che proviamo nessun principio di induzione. Nondimeno quando questa nozione comune universale ci permette di comprendere la discordanza del nostro corpo con un altro, da tale comprensione scaturisce una gioia attiva. “In quanto comprendiamo la causa della tristezza, in quanto la tristezza stessa cessa di essere passione” (Ethica, V, scolio 18). Vi è un vero e proprio apprendimento delle nozioni comuni: un divenire-attivi: nello Spinozismo non si deve trascurare l’importanza del problema di un processo di formazione.

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