In questo secondo articolo dedicato al brillantissimo saggio storiografico di Piero Di Vona (1928-2018) dal titolo Spinoza e i trascendentali (Morano editore, Napoli, 1977) mi occupo dell’uno come primo dei trascendentali. Il testo fondamentale per la concezione spinoziana dell’unum è il capitolo VI, Parte I, dei Cogitata Metaphysica (cf. Pensieri Metafisici, in Baruch Spinoza, Tutte le Opere, a cura di Andrea Sangiacomo, Bompiani, Milano- Firenze, 2019, p. 553). La prevalente tradizione della Scolastica riconosceva nell’unum un qualcosa di reale extra intellectum, ma dibatteva su che cosa esso aggiungesse all’ente. Spinoza, al contrario, sostiene che l’unità non si distingue affatto dalla res, e che essa non aggiunge nulla all’ente, ed è solo un modus cogitandi col quale separiamo una cosa da altre che le sono simili o che hanno con essa qualche rapporto di convenienza. Anche la molteplicità (multitudo) non aggiunge niente alle cose, né è qualcosa al di là di un modo di pensare. Riguardo Dio, egli è detto uno in quanto è da noi separato dagli altri enti, ed unico in quanto ci formiamo il concetto che non possono esserci più enti della sua stessa natura. Però – aggiunge – se volessimo esaminare la questione più accuratamente potremmo forse mostrare che Dio può essere detto uno e unico soltanto impropriamente. Cosa vuol dire Spinoza con questa espressione improprie? Non lo dice nei Cogitata perché la ritiene questione di nessuna importanza per “qui de rebus, non vero de nominibus sunt solliciti”, ma lo dirà nella Epistola L del 2 giugno 1674 (cf. Lettera 50 al prudentissimo e gentilissimo Jarig Jelles, in Tutte le Opere, cit., pp. 2076-2079) dove afferma che una cosa si dice una o unica soltanto rispetto alla sua esistenza e non già alla sua essenza. Infatti, per concepire le cose sotto numeri occorre prima ridurle ad un genere comune. Questo dimostra con chiarezza che nessuna res è denominata una o unica se non dopo che ne sia stata concepita un’altra che abbia convenienza con essa. Poiché invece l’esistenza di Dio è la stessa sua essenza e della sua essenza non possiamo formarci un’idea universale, è certo che chi chiama Dio uno e unico, non ha di Dio alcuna vera idea, oppure ne parla impropriamente. Per una piena comprensione del pensiero spinoziano su questo punto occorre rifarsi alla dimostrazione dell’unità di Dio contenuta nell’ Epistola XXXIV (cf. Lettera 34 all’illustrissimo e prudentissimo Johannes Hudde, in Tutte le Opere, cit., pp. 1998-2001). Per giungervi Spinoza presuppone che: 1) la vera definizione di ciascuna cosa non include nient’altro che la semplice la natura della cosa definita; 2) nessuna definizione implica o esprime una qualche moltitudine o un certo numero di individui, ma esprime ed implica invece nient’altro che la natura della cosa considerata in sé stessa; 3) per ciascuna cosa che esiste si deve necessariamente dare una causa positiva per cui essa esista; 4) questa causa va posta o nella sua natura oppure fuori della cosa. Ne consegue che tutte quelle cose che si concepiscono esistere come molteplici di numero, sono prodotte necessariamente da cause esterne e non dalla forza della loro propria natura. Non è così per Dio. Infatti, poiché alla natura di Dio compete un’esistenza necessaria, anche la sua vera definizione è necessario che includa un’esistenza necessaria e, pertanto, dalla sua vera definizione non si può concludere che esistano necessariamente molti dei. Ne segue soltanto l’esistenza di un unico Dio.
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